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QUANTE VOLTE SI PUO’ MORIRE IN UNA VITA SOLA?

Lieve è il dolore che parla. Il grande dolore è muto.
Seneca

Le persone se ne vanno, ma il dolore della perdita resta; vivo, vibrante, assordante, lancinante.
Alcune scelte, alle volte, ci mettono di fronte alla fragile e ingenua natura che avvinghia il sentimento umano, tradendone i limiti e le frangibilità.
Quando una persona che amiamo decide di porre fine alla sua esistenza è il gelo.
Iniziano a sorgere migliaia d’interrogativi, i sensi di colpa si autoalimentano e, con le loro mani ruvide e arrugginite, ci violano il respiro, l’anima, il corpo, le parole.
Si cerca aiuto, si urla ma,
anche il grido più pungente, si fa sempre più fioco.
La necessità di contatto con l’esterno, il bisogno ultimo di comunicare è stato il motore di questo lavoro,
il bisogno di far uscire il macigno di rabbia che grava su ogni singola lacrima, su ogni singola sfumatura dell’anima.
Il trittico “Quante volte si può morire in una vita sola?”, vuole
descrivere qualcosa di intimo, di inquietante, di talmente doloroso da fuoriuscire dai limiti del supporto ligneo.
Nei tre pannelli è possibile cogliere una figura femminile posta in posizione fetale, la quale cerca dolorosamente di emergere da un fondo grigio scuro.
Le figure ricalcano il mio corpo e sono realizzate da migliaia di viti che forano il supporto e lo compongono nella sua interezza. La posizione fetale rimanda al raccoglimento che, ancora prima della nostra venuta al mondo, ci ha dipinto nel grembo materno, restituendoci alla sfera uterina stagliandosi in contrapposizione con l’età adulta, che ci sbatte di fronte ad alcune realtà che, nella loro tragica epifania, ci lasciano inermi, congelati.
E’ così che ci rendiamo conto di essere andati troppo avanti, di essere andati così oltre che, inevitabilmente, scaturisce in noi il desiderio di decrescere, di correre ai ripari e, la posizione fetale, nel suo significato più ancestrale, riesce a rendere alla perfezione il bisogno di tutela e isolamento da una realtà amara da digerire. La moltitudine di chiodi invita a sfiorare delicatamente le sue parti con il polpastrello, nonostante manchi il dolore fisico, il senso di fastidio è talmente profondo da indurre a togliere subito la mano. Ed è questo il dolore che si prova quando perdiamo qualcuno,
un dolore che è difficile cogliere stando a guardare, un dolore che lentamente e progressivamente si incastra sulla nostra anima talmente tanto da uscire dal limite corporeo.

Pannelli di compensato, viti autofilettanti, spray nero, resina epossidica.
Tre pezzi da
1.90 m (h) X 1.20 m X 6 cm

Le Coquelicot Communications https://barbaracenere.wordpress.com

FRANCESCA CARION - "QUANTE VOLTE SI PUO' MORIRE IN UNA VITA SOLA?"

Lavoro presentato al pubblico lo scorso 15 novembre, in occasione della 13esima edizione di "StepBySTep" e visiitabile fino al 15 dicembre all'interno del Conservatorio Cesare Pollini di Padova. Si tratta di un progetto dedicato ad artisti e curatori emergenti promosso dal Progetto Giovani del Comune di Padova in collaborazione con il Dipartimento dei Beni Culturali dell'Università degli Studi di Padova.

--> Il lavoro di Franesca Carion, inoltre, verrà presentato nuovamente il prossimo mercoledì, 29 novembre, sempre al Conservatorio Cesare Pollini in vista dell'ultimo appuntamento di "StepByStep". <--

Le persone se ne vanno, ma il dolore della perdita resta; vivo, vibrante, assordante, lancinante. Alcune scelte, alle volte, ci mettono di fronte alla fragile e ingenua natura che avvinghia il sentimento umano, tradendone i limiti e le frangibilità. Quando una persona che amiamo decide di porre fine alla sua esistenza è il gelo. Iniziano a sorgere migliaia d’interrogativi, i sensi di colpa si autoalimentano e, con le loro mani ruvide e arrugginite, ci violano il respiro, l’anima, il corpo, le parole. Si cerca aiuto, si urla ma, anche il grido più pungente, si fa sempre più fioco. Qui entra in gioco la necessità di contatto con l’esterno, il bisogno ultimo di comunicare e di far uscire il macigno di rabbia che grava su ogni singola lacrima, su ogni singola sfumatura della nostra anima.

Francesca Carion, con l’ausilio di una ricerca che spazia attraverso tecniche artistiche quali fotografia, collage, installazioni e video, si mette a nudo, con lo scopo di raccontare la sua essenza, il suo affanno e la sua interiorità al fruitore, con il quale, inevitabilmente, crea un intenso legame empatico.

Al centro del suo trittico “Quante volte si può morire in una vita sola?”, infatti, è descritto qualcosa di intimo, di inquietante, di talmente doloroso da fuoriuscire dai limiti del supporto ligneo. Nei tre pannelli è possibile cogliere una figura femminile posta in posizione fetale, la quale cerca dolorosamente di emergere da un fondo grigio scuro. Nonostante le tonalità siano molto vicine, sotto particolari condizioni di luce, grazie ai contrasti che giocano su sfumature opache, lucenti e brillanti è possibile distinguere i tratti della silhouette principale da ciò che la circonda.

Le figure che, nello specifico, ricalcano il corpo di Carion, sono realizzate da migliaia di viti che forano il supporto e lo compongono nella sua interezza. La bicromia di figura e sfondo è utilizzata sapientemente e vede serpeggiare due colori cruccianti come il nero e il grigio. La figura è nera e tradisce un enorme senso di angoscia che, come una macchia d’olio, si espande sul fondale grigio che riverbera il senso di malessere e di occlusione denunciato dalla posizione della figura principale.

Il lavoro è dato da tre tavole di uguali dimensioni dove, a spiccare, è la figura dell’artista stessa.

La posizione fetale rimanda al raccoglimento che, ancora prima della nostra venuta al mondo, ci ha dipinto nel grembo materno, restituendoci alla sfera uterina e al senso di incondizionata protezione che il corpo femminile è in grado di dare al frutto del suo amore. L’età adulta, infatti, ci sbatte di fronte ad alcune realtà che, nella loro tragica epifania, ci lasciano inermi, congelati. E’ così che ci rendiamo conto di essere andati troppo avanti, di essere andati così oltre che, inevitabilmente, scaturisce in noi il desiderio di decrescere, di correre ai ripari e, la posizione fetale, nel suo significato più ancestrale, riesce a rendere alla perfezione il bisogno di tutela e isolamento da una realtà amara da digerire.

Interessante, inoltre, è il desiderio di cui siamo protagonisti una volta che, ai nostri occhi, appare “Quante volte si può morire in una vita sola?”. Infatti, la moltitudine di chiodi ci invita a sfiorare delicatamente le sue parti con il polpastrello; sappiamo che se esercitiamo una pressione corposa sulla superficie rischiamo di farci male (le punte delle viti, infatti, non sono levigate) ed è così che, a istinto, sfiorandole notiamo che, nonostante manchi il dolore fisico, il senso di fastidio è talmente profondo da indurci a togliere subito la mano. Ed è questo il dolore che si prova quando perdiamo qualcuno, un dolore che è difficile cogliere stando a guardare, un dolore che lentamente e progressivamente si incastra sulla nostra anima talmente tanto da uscire "metaforicamente" dal limite corporeo.

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