Silenzi visivi
“ Come parliamo quando parliamo di silenzio? ”
Non soltanto “di che cosa parliamo”, ovvero quali sono la natura, la sostanza e la struttura del silenzio, bensì, soprattutto come ne parliamo, cioè quali sono le immagini, le espressioni, le metafore che si celano nelle parole con le quali parliamo di silenzio.
Il punto di partenza della mia ricerca sul rapporto
tra spazio architettonico e silenzio è stata una riflessione sugli artisti indagatori del silenzio.
Prendendo in considerazione artisti, tra quali, Mark Rothko, in particolare la Rothko Chapel di Huston, Alberto Burri, Il Cretto di Ghibellina
ho indagato su come gli artisti hanno affrontato il tema del silenzio.
Ho condotto la stessa analisi in architettura:
partendo da Tadao Ando (Chiesa della Luce di Osaka, Fondazione Langen in Germania, Il Chichu Art Museum di Naoshima)
sono passata ad un architetto formalmente opposto ma altrettanto interessato al silenzio, ovvero, Daniel Libeskind prendendo in analisi il Museo Ebraico di Berlino.
Collegandomi a questa riflessione sull’opera di Libeskind, ho aperto una riflessione sul silenzio di uno spazio commemorativo, sulle similitudini e sulle differenze del non rumore a cui assistiamo. Prendendo in analisi le strutture cimiteriali, mi sono soffermata sul Cimitero di San Cataldo progettato da Aldo Rossi.
Volendo ragionare ulteriormente sul silenzio come medium di ascensione e ossequio, la mia ricerca mi ha condotta al Cimitero militare germanico della Futa di Dieter Oesterlen.
Dedicando spazio alla materia del silenzio, ho optato per un’inversione degli ambienti appena presi in analisi: se da sempre nelle città dei morti il silenzio è sovrano (si pensi alla storia millenaria delle necropoli come ad esempio
Cerveteri e Tarquinia), ho rivolto la mia attenzione, ai
luoghi costruiti per essere vissuti, ma poi abbandonati; contrapponendo, così, il silenzio di devozione degli spazi dedicati ai defunti, da parte dei vivi, al silenzio malinconico dei luoghi ormai morti ma che al tempo sono stati adibiti alla vita. Mi sono così imbattuta nel manicomio le Granzette di Rovigo, luogo della mia infanzia e ad oggi abbandonato da oltre vent’anni ma ancora carico di tutti gli oggetti che hanno plasmato la vita degli ospiti e dei lavoratori del luogo.
In questo polveroso e ormai selvaggio luogo il silenzio
pensoso giuda questa ricerca e teme la tragicità del nulla, signore del vuoto che dell’arte nega non già l’esistenza, bensì la potenza salvifica, la forza costruttiva.
Si resta dunque in un silenzio di sospensione e abbandono, fra l’al di qua e l’al di là della superficie è dunque una soglia di ambiguità e tutto ciò che qui sosta aspira alla totalità dell’essere.
Ma non è questa l’aspirazione più grande che possa albergare nel cuore e nella mente di un uomo?
E perché mai dovrebbe esistere l’arte se non per questa sublime missione?
Qui la stessa sacralità dell’arte, oltre ogni professione di fede. Qui la possibilità di salvare il mondo, l’uomo, dal niente che lo avvolge e lo inghiotte, spalancandogli quegli “infiniti spazi e sovrumani silenzi” che sono nell’anima, prima di essere altrove.
Nasce così il mio progetto artistico, di catturare il silenzio dei luoghi per mezzo di fotografie. Ho scelto tre luoghi, sopra trattati, in cui ho teorizzato una differente sostanza di silenzio: un silenzio estetico: il Museo Ebraico di Berlino,
il silenzio ossequioso legato alla città dei morti: il Cimitero militare germanico del Passo della Futa e
il silenzio tragico dei luoghi abbandonati: il Manicomio di Granzette a Rovigo.